LA VISIONE ALTRUI
Questo articolo, scritto da David Grossman, scrittore israeliano, e tradotto e pubblicato da "Repubblica" il 20 gennaio 2009, è in gran parte condivisibile da me, e dimostra che l'obbiettività di un israeliano è più degna di rispetto e di condivisione rispetto a chi, in Italia, ritiene che nascondere la verità o le verità all'opinione pubblica italiana, sia un atteggiamento giusto per dimostrare di essere dalla parte di Israele - anche quando sbaglia- ma che in realtà vuole solo nascondere il proprio profondo senso di colpa per non aver fatto nulla o addirittura per aver partecipato a ciò che accadeva alle soglie della propria casa con la propria complicità attiva o con il più comodo atteggiamento di chi non sente, non vede e non parla.
DAVID GROSSMAN
  Come le volpi del racconto biblico di Sansone, legate per 
    la coda a un'unica torcia in fiamme, così noi e i palestinesi 
    ci trasciniamo l'un l'altro, malgrado la disparità 
    delle nostre forze. E anche quando tentiamo di staccarci non 
    facciamo che attizzare il fuoco di chi è legato a noi 
    -il nostro doppio, la nos tra tragedia - e il fuoco che brucia 
    noi stessi.
 Per questo, in mezzo all'esaltazione nazionalista che 
  travolge oggi Israele, non guasterebbe ricordare che anche 
  quest'ultima operazione a Gaza, in fm dei conti, non è 
  che una tappa lungo un cammino di violenza e di odio in cui 
  talvolta si vince e talaltra si perde ma che, in ultimo, ci 
  condurrà alla rovina. 
  Assieme al senso di soddisfazione per il riscatto dello smacco 
  subito da Israele nella seconda guerra del Libano faremmo 
  meglio ad ascoltare la voce che ci dice che il successo di 
  Tsahal su Hamas non è la prova decisiva che lo Stato 
  ebraico ha avuto ragione a scatenare una simile offensiva 
  militare, e di certo non giustifica il modo in cui ha agito 
  nel corso di questa offensiva.
Tale successo prova unicamente che Israele è molto più forte di Hamas e che, all'occasione, può mostrarsi, a modo suo, inflessibile e brutale. Allo stesso modo il successo dell'operazione non ha risolto le cause che l'hanno scatenata.
Israele tiene ancora sotto controllo la maggior parte del territorio palestinese e non si dichiara pronto a rinunciare all'occupazione e alle colonie. Hamas continua a rifiutare di riconoscere l'esistenza dello Stato ebraico e, così facendo, ostacola una reale possibilità di dialogo.
L'offensiva di Gaza non ha permesso di compiere nessun passo verso un vero superamento di questi ostacoli. Al contrario: i morti e la devastazione causati da Israele ci garantiscono che un'altra generazione di palestinesi crescerà nell'odio e nella sete di vendetta.
 Il fanatismo di Hamas, responsabile di aver valutato 
  male il rapporto di forza con Tsahal, sarà esacerbato 
  dalla sconfitta, intaserà i canali del dialogo e comprometterà 
  la sua capacità di servire i veri interessi palestinesi. 
  Ma quando l'operazione sarà conclusa e le dimensioni 
  della tragedia saranno sotto gli occhi di tutti (al punto 
  che, forse, per un breve istante, anche i sofisticati meccanismi 
  di autogiustificazione e di rimozione in atto oggi in Israele 
  verranno accantonati), allora anche la coscienza israeliana 
  apprenderà una lezione.
 Forse capiremo finalmente che nel nostro comportamento 
  c'è qualcosa di profondamente sbagliato, di immorale, 
  di poco saggio, che rinfocola la fiamma che, di volta in volta, 
  ci consuma. 
  È naturale che i palestinesi non possano essere sollevati 
  dalla responsabilità dei loro errori, dei loro crimini. 
  Un atteggiamento simile da parte nostra sottintenderebbe un 
  disprezzo e un senso di superiorità nei loro confronti, 
  come se non fossero adulti coscienti del!e proprie azioni 
  e dei propri sbagli.
 E indubbio che la popolazione di Gaza sia stata "strozzata" 
  da Israele ma aveva a sua disposizione molte vie per protestare 
  e manifestare il suo disagio oltre a quella di lanciare migliaia 
  di razzi su civili innocenti. Questo non va dimenticato. Non 
  possiamo perdonare i palestinesi, trattarli con clemenza come 
  se fosse logico che, nei momenti di difficoltà, il 
  loro unico modo di reagire, quasi automatico, sia il ricorso 
  alla violenza. 
  Ma anche quando i palestinesi si comportano con cieca aggressività 
  - con attentati suicidi e lanci di Qassam - Israele rimane 
  molto più forte di loro e ha ancora la possibilità 
  di influenzare enormemente il livello di violenza nella regione, 
  di minimizzarlo, di cercare di annullarlo. La recente offensiva 
  non mostra però che qualcuno dei nostri vertici politici 
  abbia consapevolmente, e responsabilmente, afferrato questo 
  punto critico. 
  Arriverà il giorno in cui cercheremo di curare le ferite 
  che abbiamo procurato oggi. Ma quel giorno arriverà 
  davvero se non capiremo che la forza militare non può 
  essere lo strumento con cui spianare la nostra strada dinanzi 
  al popolo arabo?
Arriverà se non assimileremo il significato della responsabilità che gli articolati legami e i rapporti che avevamo in passato, e che avremo in futuro, con i palestinesi della Cisgiordania, della striscia di Gaza, della GaliIea, ci impongono?
Quando il variopinto fumo dei proclami di vittoria dei 
  politici si dissolverà, quando finalmente comprenderemo 
  il divario tra i risultati ottenuti e ciò che ci serve 
  veramente per condurre un'esistenza normale in questa regione, 
  quando ammetteremo che un intero Stato si è smaniosamente 
  auto ipnotizzato perché aveva un estremo bisogno di 
  credere che Gaza avrebbe curato la ferita del Libano, forse 
  pareggeremo i conti con chi, di volta in volta, incita l'opinione 
  pubblica israeliana alI' arroganza e al compiacimento nell'uso 
  delle armi. Chi ci insegna, da anni, a disprezzare la fede 
  nella pace, nella speranza di un cambiamento nei rapporti 
  con gli arabi. Chi ci convince che gli arabi capiscono solo 
  il linguaggio della forza ed è quindi quello che dobbiamo 
  usare con loro. E siccome lo abbiamo fatto per cosl tanti 
  anni, abbiamo dimenticato che ci sono altre lingue che si 
  possono parlare con gli esseri umani, persino con nemici giurati 
  come Hamas. Lingue che noi israeliani conosciamo altrettanto 
  bene di quella parlata dagli aerei da combattimento e dai 
  carri armati. 
  Parlare con i palestinesi. Questa deve essere la conclusione 
  di quest'ultimo round di violenza. Parlare anche con chi non 
  riconosce il nostro diritto di vivere qui.
 Anziché ignorare Hamas faremmo bene a sfruttare 
  la realtà che si è creata per intavolare subito 
  un dialogo, per raggiungere un accordo con tutto il popolo 
  palestinese. Parlare per capire che la realtà non è 
  soltanto quella dei racconti a tenuta stagna che noi e i palestinesi 
  ripetiamo a noi stessi da generazioni. Racconti nei quali 
  siamo imprigionati e di cui una parte non indifferente è 
  costituita da fantasie, da desideri, da incubi. Parlare per 
  creare, in questa realtà opaca e sorda, un'alternativa, 
  che, nel turbine della guerra, non trova quasi posto né 
  speranza, e neppure chi creda in essa: la possibilità 
  di esprimerci. 
  Parlare come strategia calcolata. Intavolare un dialogo, impuntarsi 
  per mantenerlo, anche a costo di sbattere la testa contro 
  un muro, anche se, sulle prime, questa sembra un' opzione 
  disperata.
 A lungo andare questa ostinazione potrebbe contribuire 
  alla nostra sicurezza molto più di centinaia di aerei 
  che sganciano bombe sulle città e sui loro abitanti. 
  Parlare con la consapevolezza, nata dalla visione delle recenti 
  immagini, che la distruzione che possiamo procurarci a vicenda, 
  ogni popolo a modo suo, è talmente vasta, corrosiva, 
  insensata, che se dovessimo arrenderci alla sua logica alla 
  fine ne verremmo annientati. 
  Parlare, perché ciò che è avvenuto nelle 
  ultime settimane nella striscia di Gaza ci pone davanti a 
  uno specchio nel quale si riflette un volto per il quale, 
  se lo guardassimo dall'esterno o se fosse quello di un altro 
  popolo, proveremmo orrore. Capiremmo che la nostra vittoria 
  non è una vera vittoria, che la guerra di Gaza non 
  ha curato la ferita che avevamo disperatamente bisogno di 
  medicare. Al contrario, ha rivelato ancor più i nostri 
  errori di rotta, tragici e ripetuti, e la profondità 
  della trappola in cui siamo imprigionati. . 
  Traduzionedi A. Shomroni
Gennaio 2009